2035. Ho 56 anni e i capelli grigi. Hanno resistito fino ai 40, poi il castano ha cominciato ad arrendersi. Però la strada è la solita, le sciarpe anche, gli amici pure. C’è Stefano, a cui l’attività fisica, tutto sommato, ha contenuto l’eventuale sovrappeso. C’è Mimmo, senza capelli e con gli occhiali un po’ più spessi, ma è sempre un bel fiulin. Avremo fatto centinaia di volte il percorso che porta allo stadio, ma non ci stufiamo mai. Tendenzialmente ridiamo e spariamo cazzate come vent’anni fa, perché andare in curva è sempre una festa ma quando c’è il derby è diverso. Siamo seri, concentrati, tesi. Per stemperare la tensione dico: “Ragazzi, vi ricordate il primo derby vinto che abbiamo visto insieme?” Si accende l’interruttore, partono i ricordi, mi ritrovo a raccontare una storia narrata tante volte, ma che non si toglie dalla testa.
2015. Di anni ne ho appena compiuti 36 e ho una paura fottuta. Non tanto di perdere l’ennesimo derby, quanto della possibilità di vedere i gobbi alzarci lo scudetto in faccia. Ecco, anche per una tifoseria con un alto grado di abitudine alle beffe, questo sembrerebbe davvero troppo. Invece è possibile. La Roma ha perso all’ultimo minuto la sera prima: se la Juventus vince e la Lazio perde sarà tricolore per la squadra di Allegri. Io e Stefano ci avviciniamo allo stadio alternando “dai che ce la facciamo” a “no, tanto perdiamo” senza soluzione di continuità. Mimmo dice di non essere teso e ostenta calma olimpica. Lo prenderemmo a schiaffi.
La settimana precedente è stato tutto un fiorire di “questo è l’anno buono” detto un po’ da tutti: da compagni di tifo, da sostenitori di altre squadre e persino da gobbi, nel loro caso detto col quel sorrisetto di sufficienza che li rende simpatici come lo stridore di unghie sulla lavagna. Più me lo dicevano, più toccavo il toccabile. Più me lo dicevano, più speravo di essere eletto in Parlamento per chiedere di rendere illegale questa pratica. Più me lo dicevano, più volevo che fossero già le 15 del 26 aprile. Che, finalmente, arrivano.
Dopo una coreografia finalmente all’altezza, la palla inizia a girare e quando lo fa, rapito dal campo, un po’ di tensione scende. Giochiamo bene, senza paura, ma non riusciamo a concludere. Ogbonna, al primo derby da titolare, si becca il trattamento Balzaretti e si continuerà a dimostrare uno degli ex meno da rimpiangere della nostra storia. I bianconeri non sono al meglio, ma ho paura di Pirlo. Ha la mia età, ma mentre io ho la pancetta e accuso i quattro piani di scale quando porto la spesa a mia zia, lui è lì a predicare calcio e a romperci la scatole. Come quando mette in porta Matri, ma la palla finisce in curva, risparmiandoci l’esultanza da picchio. Dietro teniamo, Glik è stupendo, Maksi non ne sbaglia una, Moretti è pulito. Gazzi parte gladiatorio, ma sente troppo la gara e inizia a combinarne qualcuna di troppo, come quando, da un suo errore, nasce un calcio di punizione ai venti metri. Centrale. I telecronisti di mezzo mondo si stanno già sciogliendo dicendo che è la zolla di Pirlo, la mattonella di Pirlo, il centimetro quadrato di Pirlo. Giuro, patirei meno un rigore contro e allora me ne vado. Scendo le scalette che portano alla curva e non guardo. O meglio, guardo, ma vedo solo uno spiraglio, giusto la testa di Padelli.
Parte il tiro, sento un attimo di silenzio (e nulla è rumoroso come certi attimi di silenzio) poi un boato lontano. Hanno di nuovo segnato, ha di nuovo segnato Pirlo, anche questo è andato. Vago tra primo e secondo anello, poi torno al mio posto incredulo. Ho paura. Di perderne un altro, di vederli vincere lo scudetto. Poi il tabellone dice Lazio-Chievo 1-0. Credo di essere l’unico a esultare in tutto lo stadio, ma non importa. Mi rianimo. Mi avvicino alla balaustra. C’è anche un vecchietto che, prima di ogni santo intervallo, scende in anticipo per essere fra i primi ad andare a fare pipì e poi si ferma a guardare gli ultimi secondi del tempo. “Se segnamo, lo lancio di sotto” dico agli altri. Neanche il tempo di pensarlo: Quagliarella si mangia Bonucci, anticipandolo di testa, guardiamo tutti Maxi Lopez in mezzo, ma “Quaglia” ha una visione più ampia della nostra (non per altro lui gioca ad alti livelli e noi no) e serve Darmian: stop sbagliato, non vedo più il pallone per un istante, poi vedo la rete che si gonfia. Urlo belluino, mucchio selvaggio, Ste mi strangola, me lo porto appresso mentre vado ad abbracciare tutti, delirio, principio di soffocamento evitato, probabilmente, dall’adrenalina. 1-1, si va a riposo, mamma mia che bello passare in 10’ minuti dallo sconforto alla gioia unica. Nell’intervallo c’è quella bella sensazione in cui tutto sembra possibile. Peccato mi passi in fretta, perché appena Tagliavento fa riprendere il gioco sono di nuovo in apnea.
Altra punizione per i gobbi. Dai, ma questa sembra più lontana, figurati se Pirlo tira anche di lì. Tira anche di lì: palo. Mi passa tutta la vita davanti agli occhi. Però noi ci siamo, Ventura l’ha studiata bene, sanno tutti cosa fare e come muoversi. Al 57’ El Kaddouri usa la spada per vincere un duello, poi si avvicina caracollante all’area. Il volume della curva che si alza man mano che si avvicina al limite è una goduria. Imbucata per Darmian che crossa in mezzo, dove Quagliarella è puntuale per gonfiare la rete. A differenza della scena madre sull’1-1, il gol è così bello e così logico nella sua bellezza che alzo solo il pugno al cielo, ma lo tengo per almeno due minuti, mentre vengo sballottato a destra e a manca. Sembro la Statua della Libertà durante una scossa di terremoto. O, forse, sembro solo un rimbambito, ma un rimbambito felice. Mi scappa anche un gesto dell’ombrello di prammatica al settore ospiti, ma è più un atto dovuto che altro. Generalmente mi disarticolo l’arto a furia di farlo dopo un gol, ma quella volta no: ho troppa voglia di festeggiare coi miei amici per perdere tempo a sfottere gli avversari. Quagliarella, nel frattempo, non esulta, ma lo fanno gli altri dieci e lo sotterrano con un abbraccio. Quagliarella non esulta, ma gioca un derby tutto classe e tigna.
Il problema ora è: posso resistere alla tensione del mantenimento del risultato per mezzora più recupero? Umanamente impossibile, ma ci provo. Alterno momenti in cui sono sicuro di fare il terzo, ad altri in cui sono altrettanto sicuro di subire il pari. Entra Martinez, inizia a sbucare ovunque. Entra Tevez, inizio a sgranare il rosario. Quagliarella prova la rovesciata rischiando di far venire giù lo stadio: purtroppo rimane su. Gazzi fa un recupero che non sa nemmeno lui. In mezzo sono quasi tutte di Kamil. Esce Benassi, ha giocato bene, ma non ne ha più: entra Vives. Peres riprova il colpo dell’andata, Peres, Peres, Peres, tira, dalla, tira, dalla: sceglie di tirare, colpisce una gamba. Vives prova il destro al volo da fuori che, anche qui, farebbe venire giù lo stadio e, anche qui, purtroppo rimane su. Ogbonna rischia l’autorete, Buffon si complica la vita sul pressing di Quagliarella, mentre tutto lo stadio ruggisce. Ogni volta che Bonucci tocca palla, faccio il gesto che fa quando esulta, un gesto tanto inspiegabile quanto snervante: diventa una specie di mantra portafortuna ripeterlo fino al termine. Poi, al 76’, Sturaro scheggia il palo di testa: segno che è la volta buona o che ora inizierò a farmela addosso sul serio? Tutte e due le cose.
All’80’ Quagliarella batte al volo, Martinez insacca di testa, ma è in fuorigioco: mentre filosofeggiamo se la palla sarebbe entrata lo stesso o meno, si crea quella che la Gialappa’s definiva “fajolada” nella nostra area. Intuiamo un palo, un pallone che danza al limite dell’area piccola e arriva chissà come a Padelli, prima che Tagliavento fischi fallo. Giuro che non ho respirato. 2’ e Pirlo, ancora Pirlo, basta Pirlo, hai la mia età, siediti un attimo, riposati che non hai più vent’anni, Pirlo, dicevo, serve una palla d’oro a Sturaro a un metro dalla porta. Padelli vola: nove su dieci quei palloni te li butti dentro da solo, ma oggi è la decima volta, l’urlo orrendo del settore ospiti resta ancora nelle loro gole.
Più passano i minuti e più penso di non farcela, ma di non farcela fisicamente io, non il Toro. All’89’ lascio la curva e scendo le scale. Sento solo Venneri annunciare cinque minuti di recupero (che ci stanno tutti). E allora inizio a fare avanti e indietro e conto. Conto fino a trecento, trecento secondi, un soffio in qualunque istante, un’era geologica se stai vincendo un derby e non posso neanche barare contando più rapidamente, perché il cronometro non si piega ai miei voleri. Do una sbirciata solo quando capisco che è palla nostra. Conto fino a cento, duecento, trecento. Ma non fischia. Sono stato troppo veloce. Metto la testa su e vedo ancora la palla a loro, ma poi Tagliavento fa ciò che deve, lo capisco anche perché vedo la gente in campo che si abbraccia e si inginocchia e abbraccio e mi inginocchio anch’io, e urlo e piango e rido e ce l’abbiamo fatta e, onestamente, avevo paura che fossimo vittime di un sortilegio e che non ce l’avremmo fatta mai più e invece ce l’abbiamo fatta e io c’ero ed è uno dei momenti più belli di sempre, un momento che mi ricorderò anche quando avrò novant’anni, un momento che non voglio sporcare perdendomi in dispute e sfottò, lo voglio godere stando con i “miei”, con chi non l’aveva mai visto, con chi si commuove, con chi era ragazzino e, in quel momento, è tornato più ragazzino di prima.
Torniamo a casa e camminiamo a un metro da terra, non sappiamo se crederci o no, ci fermiamo, ripartiamo, le macchina suonano i clacson, qualcuno va in piazza, ma più che per festeggiare il derby lo fa per sancire che siamo tornati sul serio, mentre l’altra sponda è un tutto un gnegnegne di “tanto lo vincerete fra altri vent’anni” e scarsa originalità galoppante. Un tamarretto passa e, per fare lo splendido con due ragazzine, dice ad alta voce “La Juve è in Champions, il Toro dov’è?” Dovremmo lasciar perdere, abbozzare. Ma di colpo abbiamo sedici anni e rispondiamo. Io dico solo un “Fai ridere”, di quelli pieni di condiscendenza mista pena. Stefano rilancia con un “Ma sei scemo?” Direi che, a occhio, non ha fatto proprio una bella figura con “le tipe”. Bei momenti. Se morissimo in quell’istante, moriremmo felici, perché, e l’ho detto mille e mille volte, la purezza della gioia che ti da il Toro quando vince partite così non ha eguali. E’ chiara, cristallina, genuina. Così forte che è quasi da piangere”
2035. Il racconto è finito, almeno ha accorciato il tempo che manca all’inizio. Arriviamo ai cancelli, la solita fila, le solite perquisizioni, poi l’ingresso. Ci aspetta un altro derby. Non ricordo quanti ne abbiamo vinti nel frattempo, un vuoto di memoria, io che, generalmente, ricordo quasi tutto. Ma è colpa del racconto del derby di venti anni prima che, ogni volta che riaffiora, mi si conficca nel cervello e non mi fa pensare ad altro. Il fatto che mi sembra proprio ieri che sia successo. Forse è stato ieri. O forse sarà per sempre.
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Francesco Bugnone, classe 1979. Ha fatto l’educatore e adesso, se volesse tirarsela, direbbe che“lavora nel settore delle comunicazioni”. Molto più prosaicamente e umilmente, fa il formatore e il team leader nel call center di una compagnia telefonica (no, non sono loro quelli che telefonano a ogni ora, loro ricevono le chiamate!). Nonostante qualche abitudine un po’ “nerd” (per esempio, le valanghe di fumetti che divora o ascoltare i Carcass), è sposato e prima o poi arriverà anche un (o una) erede. Chissà se sarà granata, chissà se potrà vedere il Fila.