Non so neppure come si chiamasse. Non è che non me lo ricordi. È che proprio non lo so, non l’ho mai saputo. Aveva di certo un nome e un cognome, ma nessuno lo chiamava mai con i suoi riferimenti anagrafici. Per tutti era “quello là”, oppure, se gli si rivolgevano in modo diretto gli dicevano: “ehi, dì, ma tu”e poi via con il quesito che avevano da fargli.
In verità non è neppure che avessero chissà che cosa da chiedergli. Era soprattutto lui a parlare, con quel suo tono di voce forte, deciso, di chi la sa lunga e ha un’opinione su tutto. Lo sentivi da lontano che sparava sentenze, oppure ne avvertivi chiaramente la voce in mezzo a un crocchio di gente, mentre concionava a tutto spiano. Non mi era particolarmente simpatico, anzi, per dirla tutta mi stava anche un tantino sui marroni, ma era un personaggio, uno che non poteva passare inosservato. Tra le tante che sparava (e le sparava grosse, mica da ridere) avevi sempre la curiosità di sentirne qualcuna e, da ragazzo che eri, se potevi lo cissavi per farlo esagerare. Gli davi ragione, ti complimentavi, poi ti facevi delle gran risate con i tuoi amici appena voltava l’angolo.

 

A quei tempi poteva avere una quarantina d’anni, ma era uno di quei tipi difficili da classificare. C’era chi gliene dava di più, chi di meno. Se stavi a quello che diceva lo facevi più vecchio anche di dieci, ma forse era per il fatto che ragionava per stereotipi e spesso quello che affermava lo avevi letto sul quotidiano del giorno prima, vergato da ben altra firma.
Io lo chiamavo Taormina.
Uno dice Taormina e pensa subito alla Sicilia, eppure lui era piemontesissimo, con un forte accento a metà tra il torinese e l’astigiano. Era di quelli che, se poteva, dialogava volentieri in dialetto. Lo chiamavo Taormina, per via di quella trasferta in pullman con i Fedelissimi a Pistoia, all’inizio degli anni ottanta.
Lui viaggiava da solo, ma conosceva tutti, o, meglio, tutti conoscevano lui. La partenza era alle sei, in una gelida mattina di inizio febbraio, da piazza Castello. Avevo investito 12000 lire per il viaggio e 3500 per il biglietto di curva. Il programma prevedeva più o meno dodici ore di viaggio tra andata e ritorno, inframmezzate dall’attesa per l’apertura dei cancelli e dal prepartita in curva. Il clou, ovviamente, era Pistoiese-Torino, prima giornata del girone di ritorno. Tutto questo per sostenere i nostri ragazzi e spingerli verso una vittoria che non sarebbe arrivata. Difatti, nonostante il gol del vantaggio di Pupi, nella ripresa avremmo subito il pareggio da parte di Benedetti. Il tempo per rimediare ci sarebbe anche stato, ma le energie e la testa no e la partita sarebbe finita 1-1. Noi saremmo rimasti quinti in classifica, loro, neopromossi dalla serie B, appena quattro punti dietro, anche se alla fine del campionato sarebbero retrocessi come ultimi.

 

Quel giorno un gruppetto di ragazzi della mia età lo aveva preso in mezzo fin dalle prime ore del mattino e lo caricava a molla per farlo sentire importante. Più la sparava grossa, più quelli lo incoraggiavano, lo sostenevano e rilanciavano. Lui era seduto in terza-quarta fila sulla destra e quegli altri stavano al centro del torpedone. Lui si girava e sparava la sua, gli altri gli davano ragione e rilanciavano da dietro. Sentendosi ormai in grande sintonia con lui un paio di loro aveva cominciato ad alzarsi a turno e ad andare verso il suo posto per dargli ragione non solo verbalmente, ma anche fisicamente, assestandogli delle belle pacche sulle spalle, condite da frasi tipo “tu sì che le sai le cose!” o anche “oggià, così si fa”, per poi rilanciare l’argomento con altre richieste di chiarimenti e di affermazioni perentorie. Infine il gruppetto aveva deciso di passare all’azione su terreno aperto, così erano partiti i cori classici del tempo: “autogrill – autogrill – ci fermiamo, ci fermiamo, ci fermiamo all’autogrill”, ma pure: “vogliamo far popò – vogliamo far pipì – se il Guido non si ferma noi la faremo qui”.

 

Una volta a terra lo avevano accompagnato al bar con la scusa di un cicchetto e, tra una pacca e l’altra, gli avevano appiccicato sulla schiena un adesivo rotondo bello grosso. Per garantirsi che non si staccasse subito, avevano continuato con ogni scusa possibile a strusciargli le mani e le braccia attorno alle spalle e sul gabbione. Lo avevano lisciato e fatto aderire ben bene.
Poi avevano cominciato a chiedergli se era mai stato in Sicilia, che cosa pensava dei siciliani, che loro erano stati una volta a Taormina e, levati!
“Mai stato in Sicilia?” faceva uno.
“Uno come te non può non vedere Taormina, è una perla!” caricava il secondo.
“Ma dai, sicuro che c’è già stato, lui ha girato mezzo mondo, vuoi che non sia mai stato a Taormina?” buttava lì il terzo.
E, a quel punto, lui era bello che imboccato, perché ti pare che non avesse qualcosa da dire anche su quello? Così era partito un dibattito ad arte su Taormina e c’era chi ne parlava bene e chi diceva peste e corna. Lui ascoltava, in attesa di prendere una posizione. Si vedeva che pativa, che era a disagio, perché non padroneggiava l’argomento. Ma la pulsione ad intervenire era troppo forte, fremeva tutto e non gli pareva normale non avere una opinione personale da buttare lì, per poi rafforzarla, ingrassarla e farla diventare una sentenza. Quindi aveva preso fiato, aveva atteso il silenzio e se ne era uscito così: “ragazzi ne
ho delle belle da raccontarvi su Taormina e i siciliani in genere. Ma ora fatemi dare aria al canarino, altrimenti me la faccio addosso!”.
Così ne aveva approfittato per prendere tempo e scomparire al cesso, disdegnando la richiesta di offerta libera della vecchia con il cestino d’ordinanza, non senza essere seguito da un paio di quei balordi, che temevano soltanto potesse accorgersi dell’adesivo.

 

Com’era sfumato nei bagni gli altri avevano cominciato a scompisciarsi dalle risate, ripetendo, una dopo l’altra, le varie affermazioni fatte dal tipo nelle ore precedenti. Io, curioso di scoprire che cosa gli avessero appiccicato sul giubbotto di pelle, lo attendevo al varco, fuori della porta del cesso, fingendo di sbirciare tra le bottiglie di vino e le tagliatelle all’uovo colorate. Così, ero rimasto tra l’attonito e l’ammirato quando era ricomparso nella zona bar e avevo potuto avvicinarlo da dietro. Sul giaccone in similpelle lucido campeggiava gagliardo uno splendente sole alle spalle di una montagna, con il mare sullo sfondo. E in mezzo, attraversava orizzontalmente l’immagine una scritta perentoria: TAORMINA.
Da quel giorno, ogni volta che l’avessi incontrato, l’avrei chiamato così, per sempre.
C’era dell’estro in quella rappresentazione. C’era una regia e un copione non scritto, che si plasmava a partire dalle improvvisazioni di quei ragazzi, al punto che pareva di trovarsi sul set di “Amici miei”, un vero e proprio film cult di pochi anni prima. Quelli stavano facendo la loro personale zingarata oppure, per dirla alla maniera ligure, lo stavano caricando ben bene di legna verde. E lui, inconsapevole, se la portava tutta sulle spalle.
Ma, al contrario di quello che avveniva nel film, a distanza di tempo mi resta il dubbio che anche lui in qualche modo recitasse la sua parte. Dai discorsi che faceva di solito con i vicini di posto (perché lo avevo trovato altre volte, in seguito, in altre trasferte con i Fedelissimi Granata) mi ero fatto l’idea che fosse una persona molto sola. Doveva vivere con una madre piuttosto anziana, o, comunque, si trovava nelle condizioni di doverla in qualche modo accudire e il Toro rappresentava l’unica vera sua fonte di svago. Quelle trasferte al seguito della squadra del cuore gli riconsegnavano un ruolo attivo, se non da protagonista, certo mai da comparsa. La domenica era sacra. Evidentemente l’anziana madre veniva appioppata a qualcun altro e lui si godeva la partita in casa dai Distinti, possibilmente seduto sul suo cuscinetto granata da un settore laterale, mentre tutte le trasferte che riusciva a fare se le sciroppava sui pullman dei clubs.
Il nostro Toro, insomma, ricopriva realmente un ruolo sociale, ma anche terapeutico. Per Taormina, ma anche per tanti altri, significava l’attribuzione di un prestigio, o anche soltanto una parte di esso, che non sarebbe stato neppure immaginabile nella vita di tutti i giorni. Di domenica poteva riprendersi dalle batoste che la vita gli dava giorno per giorno e il suo ruolo da perfetto imbonitore poteva tranquillamente prevedere di subire anche qualche sfottò, magari facendo finta di nulla, finchè tutto rimaneva nei confini di lazzi e battute.

 

C’era chi lo insultava di brutto, spesso facendo riferimento alla sua statura fisica parecchio ridotta, chi gli dava del nano bastardo, o dell’occhialuto di merda, mai lui rispondeva sempre a tono, con insulti che apparivano belli coloriti la prima volta che li sentivi, ma che mancavano di fantasia, visto che si ripetevano, sempre uguali, partita dopo partita. Era anche un gran bestemmiatore, non lesinava su santi e madonne, incurante del fatto che a molti passeggeri potesse dare fastidio. Peraltro, Taormina si riteneva una personcina a modo, perché dalla sua pativa i rutti e le scorregge che qualche maleducato gli tirava di passaggio.
Su tutto, una cosa lo mandava in bestia. Non potevi toccargli i capelli. Era di carnagione chiarissima, qualche efelide, occhialini mignon con lenti piuttosto spesse da miope e capelli, tantissimi capelli, tagliati corti, a spazzola, di color biondo-rossiccio. Di quei capelli era gelosissimo. Sempre attento che non gliene andasse neppure uno fuori posto, appena poteva tirava fuori dal taschino un piccolo pettine per aggiustarseli. Era logico che il modo migliore per farlo incazzare fosse quello di avvicinarlo di nascosto e passargli velocemente la mano in mezzo alla crapa, avanti e indietro, condendo il tutto con frasi mediocri tipo “bello il mio maschione”. Oppure anche: “fru-fru-fru, quanto mi piaci!”.
Lì, usciva di testa. Si agitava tutto, cercava di menare le mani, imprecava, dava fondo a tutto il suo repertorio di odio razziale e di insulti. Poi ti minacciava e gridava “basta, lasciatemi in pace, non ne ho più voglia!”. E la smetteva davvero, come un bimbo che dice “non gioco più” si girava dall’altra parte del sedile, si rincantucciava tutto, facendosi ancora più piccolo di quello che era e non lo sentivi più per il resto del viaggio.
A quel punto, però, il divertimento era terminato. Così, quello che lo aveva spettinato veniva duramente rimproverato dagli altri, non tanto perché gli avesse mancato di rispetto, ma, soprattutto, perché Taormina aveva chiuso, basta, finito, insomma non sparava più nessuna delle sue cazzate. Per tanti era la fine di un incubo e l’inizio di un briciolo di tranquillità. Ma per quelli ai quali la trasferta non passava mai era la fine della zingarata.
“E mò che si fa?”.
“Coglione, proprio i capelli dovevi toccargli? Sai che non lo sopporta…”.
“Ma era tutto fru-fru-fru” e giù di nuovo a ridere come debosciati, finchè non si passava a qualcosa d’altro.
E allora, finalmente, si cominciava a parlare di Toro. Per la verità, in altri punti del pullman, di Toro si parlava da ore, ma tu non te ne eri accorto, perché eri troppo preso da Taormina e dagli altri. Se la domenica prima i nostri avevano perso, o avevano giocato male, i pessimisti parlavano di quello e non si capacitavano di quanto avremmo potuto cadere in basso. Gli entusiasti, invece, lanciavano cori manco fossero in curva, giocando con sciarpe e foulard per colorare il bus e mostrarli alle auto che ci superavano. I tecnici spiegavano i rischi della trasferta della giornata, ma gli inguaribili ottimisti li sommergevano con improbabili pronostici di vittoria a suon di gol.

 

Si creava un bell’ambiente, per cui cercavi di partecipare alle discussioni di più gruppi, saltellando avanti e indietro per il torpedone, un po’ come oggi, quando sei su facebook o su WhatsApp e partecipi contemporaneamente a più di una chat. Ma quelle erano chat reali, forum in viva voce, con facce, ugole e tigne vere, chissà se i ragazzi di oggi avrebbero saputo godersele o se si sarebbero isolati con le orecchie tappate da qualche cuffia.
Così sul pullman si respirava l’aria del prepartita, anche se mancavano ancora tante ore all’inizio della gara. E Taormina si risvegliava dal suo esilio volontario e, piano piano, magari perché sollecitato dallo sciagurato vicino di posto, pure Tao riprendeva a vivere.

 

Mi sono chiesto tante di quelle volte che mestiere facesse uno così. Perché un lavoro doveva pur averlo anche lui. Con tutte le bestemmie che tirava, di certo non faceva il maestro. Forse lavorava in proprio, che so io, magari vendeva oggetti di valore, ma mi è sempre piaciuto immaginare che facesse qualcosa di impiegatizio, in un ambiente che non lasciasse alcuno spazio alla sue verve, anzi, che proprio reprimesse le sue pulsioni. Non era uno spendaccione, ma non si faceva neppure mancare niente. In trasferta, se poteva, mangiava in trattoria, decantando nel viaggio di ritorno le portate con le quali si era ingozzato. In casa vedeva la partita dai Distinti Centrali, magari con l’abbonamento, quindi poteva appartenere al ceto medio. Ma bisogna ammettere che uno con una statura di quel tipo, in curva, sarebbe al massimo arrivato con la punta dei capelli all’altezza della settima vertebra cervicale di quello davanti e non avrebbe potuto vedere un tubo. È altresì vero che, vivendo da solo, o con l’anziana madre, non doveva avere grosse spese abituali da sostenere, quindi poteva giocarsi tutti i suoi risparmi con il Toro.
Dovessi scegliere, direi che poteva lavorare in banca, magari allo sportello. Me lo vedo proprio come un inappuntabile cassiere al banco, a contare soldi, compilare moduli e non dare confidenza al cliente, per poi scatenarsi in quelle domeniche di colore granata.

 

Un impiegato di banca con un vizietto. Difatti, delle trasferte fatte nel nord Europa, Dusseldorf e Stoccarda su tutte, non parlava tanto riguardo alla partita, o al punteggio, e men che mai al tifo. Si accendevano spesso grandi discussioni sul pari con il Borussia, con la squadra ridotta in otto per le squalifiche e Graziani in porta a salvare il risultato. Oppure su quella sconfitta di misura all’andata al Neckarstadion, che sarebbe costata il passaggio del turno in Coppa Uefa, dove, alla faccia dei tanto decantati impianti teutonici, eravamo sistemati a pelo d’erba, a distanza siderale dalla porta, e avevamo trepidato per quel missile di Pecci che si era schiantato sulla traversa.
Lui si girava a destra e a manca per guardare tutti, ascoltava e attendeva il momento topico per inserirsi, per esplodere quel tarlo che gli rodeva dentro. Quel che rimaneva, nei suoi ricordi, era soltanto l’indirizzo del bordello dove era stato e le innumerevoli cose che gli avrebbero fatto le signorine del posto. E di quante altre ne avrebbe volute fare (e hai voglia se le avrebbe fatte) in una prossima e auspicabile trasferta di coppa in terra tedesca.
E anche lì le battute si sprecavano, su quanto potesse averlo lungo un nano bastardo come lui.
Sempre che, anche quello, non facesse solo parte del personaggio.