Segue – Parte Seconda

 

Avevo intrapreso una trasferta in mezzo alla settimana, tutto solo, non sapevo se sarei riuscito a rientrare, non avevo parlato con nessuno per tutta la giornata, avevamo perso la partita.
Ma ero sereno e soddisfatto, perché sapevo di avere fatto la cosa giusta. E la scelta giusta da farsi, quel mercoledì 18 marzo 1981, era quella di andare a Ferrara a vedere Spal-Torino, valida per l’andata dei quarti di finale di Coppa Italia.
Nel tempo che mi separava dall’arrivo a Bologna e dalla speranza di riuscire a prendere la coincidenza avevo ripensato al vero motivo che mi aveva portato fin lì. Per farlo avevo dovuto tornare con la memoria alla domenica precedente, a un ricordo che fino a quella mattina non avevo ancora digerito. Ora, invece, mi sentivo in pace con me stesso, a posto con la mia coscienza di tifoso granata e capace di analizzare i fatti di tre giorni innanzi con la giusta lucidità.
Domenica 15 marzo avevo saltato pranzo ed ero uscito presto di casa, come capitava tutte le volte che si giocava il derby nel primo pomeriggio. L’appuntamento consueto era entro le 12.30, davanti alla Maratona, per entrare tra i primi all’apertura dei cancelli. Se volevi essere sicuro di vedere il derby dal centro della curva, nel cuore del tifo granata, dovevi per forza entrare tra i primi e correre ad assicurarti il posto. Certo, poteva anche capitarti di arrivare più tardi, ma, se poi volevi il posto subito dietro agli ultras, potevi raggiungerlo soltanto se qualcuno te lo aveva tenuto stando un po’ più largo e se tu spingevi a destra e sinistra e pietivi il passaggio, mostrando dove saresti andato e assicurando a tutti che non ti saresti fermato nel loro stretto spazio vitale. Con le scalette intasate di gente, avresti dovuto salire dalle scale laterali dell’anello superiore, fino in cima alla curva, poi percorrerla lungo l’ultimo gradone fino al centro e, da lì, provare a scendere. Ma non saresti mai riuscito a calarti perfettamente in centro, come avresti voluto, e ti saresti dovuto accontentare di restare un po’ più in alto e, magari, pure lontano dagli amici più stretti. Del resto, parliamo dello stesso stadio che oggi ha una capienza di circa 25 mila spettatori, ma che quel giorno ne attendeva quasi il doppio.
All’apertura dei cancelli, invece, te la giocavi alla grande. Intanto ti informavi subito sulle eventuali scaramucce della mattinata, che, talvolta, erano ancora in corso. Poi ti godevi tutti i cori a pieni polmoni contro i cancelli chiusi, cori che ti rimbalzavano addosso con la loro eco e che ti restituivano una bellissima sensazione di potenza. Ti raggruppavi insieme ai tuoi amici e ti sentivi vivo, sempre, in qualunque condizione reale tu fossi. Poi si aprivano le porte e partiva la corsa ai posti.

 

Quella domenica ero piazzato dove volevo, insieme a Mao, Dado, Viola, Fla e giusto due-tre file da Paolone, che era rimasto un po’ più in alto. Oltre alla mia ghenga di amici c’erano tutti quelli che trovavo lì ogni domenica, molti dei quali non avevano neppure un nome per me, anche se li sentivo ugualmente come fratelli.

Il prepartita si era sviluppato con i cori, gli insulti, le sciarpate, i fumogeni e i colori di sempre e mi sentivo carico da morire. Loro erano in testa alla classifica con 27 punti, a pari merito con la Roma, noi a 21, con Napoli e Inter in mezzo. Non erano una squadra qualunque, avevano gente come Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli, Bettega e Trapattoni in panchina, ma all’andata li avevamo battuti e al derby, a quei tempi, la classifica non significava nulla. Noi eravamo gli stessi che avrebbero poi giocato a Ferrara, le uniche varianti erano rappresentate da Terraneo in porta e da Zaccarelli al posto di D’Amico.
Si era subito visto che non sarebbe stata una bella giornata, per la presenza di nuvole basse e minacciose che avevano scatenato un acquazzone spaventoso fin dal primo tempo. Pioveva che il Signore la mandava e pareva non dovesse smettere mai. Le curve erano scoperte e nessuno si azzardava a portare l’ombrello. Chi l’avesse anche avuto e avesse desiderato aprirlo, sarebbe stato immediatamente mandato a fare in culo da tutti, perché avrebbe impallato la vista e, soprattutto, non avrebbe mantenuto un atteggiamento consono al settore di curva che indegnamente occupava. Chi aveva l’ombrello e lo teneva aperto stava ai margini laterali della curva, o alle estremità in alto, oppure negli altri settori dello stadio, ma lì era tutta un’altra storia.

 

Non ricordo se indossavo un Kway, un impermeabile, oppure una normale giacchetta leggera da metà marzo, ma so che ero bagnato fradicio quando alla fine del primo tempo quell’irlandese elegante di nome Brady depositò in rete il gol dello 0-1 per loro. Fu un pessimo modo di arrivare all’intervallo, perché improvvisamente mi ero accorto di quanto freddo facesse, in tutti i sensi. Ma poi era cominciata la ripresa e con essa la speranza di raddrizzare la gara. Con il campo che stava trasformandosi in acquitrino avevamo attaccato tutta la partita, non tralasciando per un solo istante gli incitamenti ai ragazzi e gli insulti ai gobbi. Poi l’acqua aveva mollato, ma a tre minuti dalla fine quel playboy da rotocalco di Cabrini aveva raddoppiato.

A quel punto la partita non era compromessa, era completamente persa. Poi era cominciata una contestazione nei confronti di Pianelli, con un coro di una ventina di voci, alle quali si erano aggiunte quelle di tutti i delusi di giornata. La cosa mi disgustava, perché Pianelli,a mio modo di vedere, era il miglior presidente che un tifoso del Toro potesse realisticamente sperare di avere. Di colpo avevo preso coscienza del freddo intenso che mi procuravano gli abiti completamente inzuppati e avevo cominciato a immaginare le successive scene di giubilo dei rigatini, che sarebbero usciti lungo il tunnel sotto la Maratona festanti, magari guardandoci sorridendo, o agitando braccia e pugni verso gli spalti.

 

Disturbato dai cori di quei pochi, dal freddo improvvisamente pungente e dal fastidio degli sfottò dei rivali di sempre mi ero girato di scatto verso gli amici e gli avevo gridato “basta, io me ne vado”.

Poi, senza dar loro modo di interloquire, a due minuti dalla fine mi ero già spostato di lato e, sfruttando un corridoio di spazio lasciato da chi se ne era già andato, ero uscito dallo stadio per far ritorno a casa, più velocemente possibile.
Ero arrivato a casa, nervoso come pochi, mi ero fatto una doccia, mi ero cambiato e mi ero seduto in camera con lo stereo a palla. Ma il nervoso aumentava, non passava e non riuscivo a digerire la sconfitta, la giornata e tutto il resto.
Fu lì che arrivò la telefonata di Viola. Mi fece un culo come poche altre volte qualcuno me ne aveva fatti. Che razza di tifoso ero, che cosa credevo di dimostrare andandomene a due minuti dalla fine, perché non andavo nei distinti e cose così. Mi chiarì che io ero il primo a dire che il sostegno alla squadra non doveva mai mancare, ma poi mi contraddicevo nei fatti lasciandola sola nel finale della gara. Mi ammonì che è troppo facile fare il tifo quando le cose vanno bene, ma che un granata vero non molla mai, qualunque cosa accada. Mi colpì accusandomi di aver mancato di rispetto a tutti con la mia fuga anticipata, che non ammetteva scuse o discolpe di alcun genere.

 

Io avevo ascoltato, tentando di inserirmi con le mie giustificazioni, ma non c’era spazio per la mia disanima della situazione. Mentre mi parlava capivo di aver sbagliato e che avrei dovuto fare qualcosa per farmi perdonare; ma, nello stesso tempo, mano a mano che i minuti passavano, quasi miracolosamente mi sentivo sempre meno nervoso.

Quando avevo messo giù il ricevitore mi ero sentito quasi rilassato, finalmente svuotato dalla tensione della giornata. Ero tranquillo, quasi sereno, perché avevo capito che cosa dovevo fare. Avrei dovuto fare qualcosa per espiare quella colpa, per rimediare a quella mancanza di rispetto verso i miei fratelli e verso i ragazzi che ancora ci provavano, dentro al campo. Avevo capito quale poteva essere quella punizione, quella scelta salvifica per rimediare.
Sarei andato a Ferrara, da solo, tre giorni dopo, per la partita di Coppa Italia. Su questo, soddisfatto, avevo riflettuto, mangiando l’ultimo panino, quella sera sul treno da Ferrara a Bologna, senza ancora sapere se sarei riuscito a prendere l’ultima coincidenza per Torino.


Toro, è Acquah l’uomo che dà sempre la scossa

Stadio Filadelfia e Grande Torino: un binomio divenuto leggenda