Il 6 maggio del 1949, un venerdì, Torino e l’Italia intera si fermarono in un silenzio profondo. Il cielo divenne scuro, un presagio del dolore che avvolgeva la città.

Il 6 maggio del 1949, un venerdì, Torino e l’Italia intera si fermarono in un silenzio profondo. Il cielo divenne scuro, un presagio del dolore che avvolgeva la città. Cinquecentomila persone, forse di più, si riversarono nelle strade per assistere ai funerali delle vittime della tragedia di Superga. Due giorni prima, il 4 maggio, la collina che sovrasta Torino era stata il teatro di uno degli eventi più tragici nella storia del calcio mondiale. Il trimotore G-212 delle Avio Linee Italiane, con a bordo una delle squadre più forti mai viste, si schiantò contro il terrapieno della Basilica di Superga. Trentun vite furono spezzate in un istante: i giocatori del Grande Torino, i loro accompagnatori, tre giornalisti e i membri dell’equipaggio.

Il corteo funebre, affinché il maggior numero di persone possibile potesse dare un ultimo saluto, percorse un lungo tragitto. I feretri uscirono da Palazzo Madama, furono caricati su camion e attraversarono le principali vie di Torino: via Roma, piazza San Carlo, piazza Carlo Felice, corso Vittorio Emanuele II, corso Re Umberto, via Alfieri, piazza San Giovanni, fino a giungere al Duomo. Un milione di occhi seguivano quel percorso, mentre le altre strade della città restavano deserte. Al momento della benedizione, la facciata della cattedrale perse tutta la sua luce, pallida come l’intera piazza, quasi a rievocare la nebbia che due giorni prima aveva avvolto il cielo.

Gli eroi son tutti giovani e belli

Guccini, anni dopo, avrebbe cantato che “gli eroi son tutti giovani e belli”. E chi, come il Grande Torino, esalta le folle e muore all’improvviso e tragicamente, si trasforma automaticamente in leggenda. La morte cristallizza la bellezza dei gesti, impedendo la parabola discendente dell’invecchiamento, che non sempre riserva un destino felice. Ma in questo caso, la leggenda era già in corso. Quel Torino aveva praticamente già vinto il suo quinto scudetto consecutivo, giocava un calcio meraviglioso e mai visto prima in Italia. Era una squadra costruita con cura, pezzo per pezzo, da Ferruccio Novo, presidente dal 1939, insieme al fidato consigliere Roberto Copernico. Ogni tessera del mosaico si incastrava perfettamente, dando vita agli “Invincibili”.

Bacigalupo era un portiere straordinario, capace di superare l’amarezza di un Italia-Ungheria del 1947 in cui dieci giocatori del Toro scesero in campo con la maglia azzurra, mentre tra i pali c’era Sentimenti IV della Juve. I terzini Ballarin e Maroso erano complementari: il primo forte fisicamente, il secondo dotato di una classe rara. Il “sistema”, ovvero il WM, era il modulo utilizzato dai granata, con Grezar e Castigliano a protezione dei terzini e Rigamonti a risolvere il problema del centromediano. In attacco, Menti, Loik, Gabetto, Valentino Mazzola e Ossola formavano un quintetto temibile, capace di combinare tecnica, forza e visione di gioco. Anche le riserve, come Tomà, Martelli, Fadini, Bongiorni, Grava e Schubert, erano di altissimo livello. A guidarli furono diversi allenatori, da Antonio Janni a Leslie Lievesley, con Egri Erbstein nel ruolo di direttore tecnico.

Le maniche di Mazzola

Vincevano tantissimo, ma senza segreti particolari. Era la forza della semplicità, un gruppo affiatato in campo e fuori. La città li amava, ma senza idolatrarli. Ossola e Gabetto, ad esempio, erano proprietari di un bar in centro, dove trascorrevano il tempo con i clienti quando non si allenavano. La Juventus, aristocratica e funambolica, rappresentava un’epoca, mentre il Torino incarnava la solidità concreta e vincente. Durante la guerra, per evitare la deportazione nelle industrie belliche in Germania, i granata furono inquadrati come dipendenti della Fiat, mentre i bianconeri finirono alla Cisitalia, azienda di design.

Numerose storie circondano quel Torino, come i quindici minuti in cui decidevano le partite o il ferroviere Bolmida che, suonando la tromba, dava il segnale a Mazzola per rimboccarsi le maniche e cambiare le sorti dell’incontro. Non serve esagerare con la retorica: talento e doti atletiche erano indiscutibili. Boniperti, leggendario juventino, ricordava Mazzola come l’uomo capace di materializzarsi sulla linea di porta per fermare un gol certo, per poi segnare nell’altra porta pochi secondi dopo. Quel gruppo di grandi atleti, diventati campioni, erano prima di tutto brave persone, ammirate perché, con le loro imprese, facevano tornare tutti a vivere. E invece, furono proprio loro a morire, lasciando una successione mai colmata nella storia dello sport italiano.

L’altimetro guasto

Alle 17:02 di mercoledì 4 maggio 1949, l’equipaggio del G-212 comunicò per l’ultima volta con la torre di controllo di Torino. Il pilota, Meroni, tentava di virare a 290 gradi per allinearsi alla pista di atterraggio. Ma il forte vento di libeccio aveva deviato la rotta, e l’altimetro, guasto, segnava 2000 metri quando l’aereo volava invece a 600 metri. Improvvisamente, dalla nebbia e dalla pioggia, emerse la basilica. Alle 17:05 la torre di controllo chiamò l’equipaggio. Non ci fu risposta.

La tragedia di Superga segnò la fine di un’epoca. Il Grande Torino, con la sua forza e semplicità, aveva conquistato il cuore di una nazione intera. Eppure, in un istante, tutto si fermò, lasciando un vuoto che ancora oggi è difficile da colmare.


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